Angelo Del Boca, la verità dell’Africa

di Domenico Quirico

Nella mia fantasia di ragazzo l’Africa era la terra dei fiumi grandi come il mare, delle selveschiaffeggiate da temporali violenti come cannonate, oppressa dal sole del tropico a mezzogiorno, sotto l’aria sensuale della savana, inebriata dall’odore della foresta vergine. Non è stato Angelo Del Boca a farmi scoprire e amare l’Africa da bambino: semmai un vecchio romanzo storico di Riccardo Bacchelli scoperto nella biblioteca di mia madre, ‘’Mal d’Africa’’ (Fratelli Treves editori Milano 1925). Titolo che a Del Boca non sarebbe certo piaciuto, visto che ha passato la vita di studioso a smentire quel modo di dire, quella anchilosata e polverosa leggenda coloniale. Era, il libro di Bacchelli, una storia di esploratori ardimentosi, di genti selvatiche, di fatiche titaniche per svelare quello che fu il

grande enigma che incantò l’Ottocento, individuare cioè le sorgenti del Nilo.

Poi, dopo la epopea romanzesca, a compensare e correggere, venne l’Africa dell’orrore, un cammino di perversione dove bellezza e malvagità si prendono per mano e avanzano verso la irrazionalità e la pazzia, ‘’Cuore di tenebra’’ di Conrad.

Il primo libro di Del Boca per me è stato ‘’Gli italiani in Africa orientale’’ edito da Laterza. Lui aveva dieci anni quando l’impero era tornato sui colli fatali e si buccinava dei conti saldati con i negus per la vergogna di Adua e di missione civilizzatrice di Roma. Ne aveva venti quando tutto quel fondale di cartapesta andò in frantumi.
Ecco: Angelo Del Boca è stato soprattutto e innanzitutto un giornalista. Non è un modo per sminuirne la statura di cattedratico e saggista. Ma dal mestiere di inviato ha tratto quelle virtù che gli storici non possono possedere, la agilità di scrittura, l’inimitabile ritmo del reportage che non ti lascia solo sulla pagina anche quando si raccontano vicende accadute decenni o secoli prima, la curiosità inesauribile, la consapevolezza che gli uomini sono la Storia e non solo archivi e memoria. Il giornalista Del Boca è avanzato nella storia del colonialismo italiano, breve poco più di mezzo secolo ma densa, drammatica e aspra, come gli esploratori raccontati da Bacchelli, Casati, Piaggia, Romolo Gessi. Dopo la fine dell’impero di latta, della quarta sponda, delle faccette nere e del karkadè restavano, storiograficamente, savane vuote, piste abbandonate e da decifrare, bric-à-brac di narrazioni che erano state cancellate dal verdetto della storia: perché bugie retorica ignoranza. Restavano omissioni, silenzi, una tenace e ipocrita volontà di non farsi domande. Il colonialismo come parentesi, breve malattia, in fondo come il fascismo, e non onerosa identità, specchio crudele.

L’ennesima riproposizione della stantia favoletta dell’italiano buono, che in fondo in Africa ha fatto del bene, frettolosamente, a indigeni emersi dalla preistoria. Il fardello del proletario uomo bianco italicus che in quell’avventura aveva, al contrario dei furbi e plutocratici inglesi o francesi, perso più che guadagnato.
Angelo Del Boca ha smentito questa bugia, rifondato da zero gli studi coloniali italiani: ha costretto anche il mondo accademico, che non aspettava altro, a non far finta di niente. E’ materiale da costruzione il suo. Saggialo dunque. Ci ha arricchito di idee, interpretazioni, sdegni. Senza i libri di Del Boca non capiremmo nulla della Libia di Gheddafi e del caos che ne è seguito, non sapremmo leggere la tragedia del Tigré, le convulsioni somale che durano da trent’anni e l’Eritrea di Afewerki, terribile carcere-Paese, i migranti. Ha fatto sì che l’Africa, per noi, non fosse più una periferia.