In ricordo di Ale Rigaldo

All’alba o in piena notte, quando si arrivava sul posto d’un fattaccio, c’erano polizia, carabinieri, ambulanze. Un funzionario o un ufficiale diceva: <Abbiate pazienza dieci minuti, poi vi faremo passare>. E mentre si aspettava da sotto le bande bianche e rosse che delimitavano l’area sbucava Ale Rigaldo, apriva la sua agenda-taccuino e cominciava a dar notizie. Era ovunque e c’era per primo, con il fiuto della grande esperienza e la tenacia  d’un ragazzo.

Alessandro Rigaldo è morto a 88 anni. Ha corso attraverso la <nera> alla Gazzetta del Popolo prima e a Stampa Sera dopo. Non c’è bisogno per lui di correggere, inchinandosi alla morte, spigoli del carattere e aspetti di vita: era la certezza di un lavoro accurato e di una generosità che a tutti offriva un aiuto, una sponda, una dritta.

Ale Rigaldo non era una <firma>. Nasceva nell’epoca dei cacciatori di notizie e dettagli che via via aggiornavano gli estensori, i quali in redazione scrivevano gli articoli. E nell’epoca pre-telefonini, l’apparecchio radio sul tavolo del capocronista era di continuo sollecitato dalla sua voce che dall’auto chiamava: <Ale alla Cronaca, mi sentite?>. E giù altri particolari.

Il 3 ottobre scorso a Novara, a un incontro sul processo mediatico per i corsi d’aggiornamento di giornalisti e avvocati, il Procuratore Generale della Repubblica Francesco Saluzzo ha ricordato quando a inizio Anni ’80 arrestò Ale Rigaldo che rifiutava di rivelare le fonti di notizie ancora segrete e ha sintetizzato così il suo lavoro: <I giornalisti come lui letteralmente bivaccavano in questura>. Il magistrato tornò in questura pochi giorni dopo e Rigaldo non era in camera di sicurezza: <Bivaccava negli uffici esattamente come prima>, ha raccontato Saluzzo. Gli volevano troppo bene agenti e funzionari, non se la sentivano di metterlo sotto chiave. Gli volevano bene dal profondo, non per un gioco di scambio, notizia-celebrità, ma per stima e slancio. Per strappare un dettaglio girava da un ufficio all’altro poi litigava con il capo della Mobile Piero Sassi, si mandavano a quel paese e facevano la pace e ricominciavano. Anche dell’arresto disse: <Che vuoi farci, io ho fatto il mio mestiere, il pm ha fatto il suo>.

S’imbizzarriva con gli inquirenti poco chiacchieroni, affrontava con naturalezza banditi di rilievo, si inteneriva e consolava madri di sciagurati, parenti di vittime, chiudeva l’agenda e s’informava da uomo, anche se sotto sotto il cronista registrava tutto. Attraversò gli anni e le tragedie del terrorismo, raccontò i sequestri di persona, i delitti clamorosi. Nelle pieghe del caso Ballerini-Pan-Magliacani seguì in Francia le orme d’un ladro d’auto e si calò così tanto nel milieu della Costa Azzurra che telefonava al giornale trafelato: <Je suis Rigaldò>. Quando fu trovata uccisa la prostituta d’alto bordo Martine Beauregard,  un uomo legato a Martine, diede un appuntamento notturno all’allora capo della Mobile Giuseppe Montesano (che ispirò romanzi di Fruttero e Lucentini, di Marcato e Novelli): sul ponte della Gran Madre quella notte erano in quattro: poliziotto e ricercato e, un po’ più in là, a cogliere l’incontro, c’era lui, Ale, con il fotografo.

Sapeva tutto della città e di niente si vantava, mai pontificava, mai sparava certezze, preferiva il dubbio, il passo avanti. Lo stimavano investigatori e farabutti, che lo guardavano incuriositi aggiungere dettagli da un telefono di bar: faceva via radio, nel fango, sotto un tetto pencolante, tra balordi che assaltavano l’auto del giornale quello che oggi si fa in Internet, l’aggiornamento costante e continuo, faceva vivere alla redazione l’evolversi continuo di un indagine, di una disperazione, di una fuga.

Talora la cronaca, anziché essere il campo da arare, diventa una tempesta che sul cronista si abbatte. Rigaldo aveva in un paese di montagna una casetta con un giardino e un grande ciliegio: lì accompagnava a stabilirsi per un po’ colleghi intorno ai quali si annunciavano pallottole del terrorismo o della delinquenza comune. Trasmetteva oltre il mestiere di cronista la limpidezza e lo slancio del collega.

Fu il primo ad arrivare anche la sera del 26 giugno 1983, quando davanti a casa fu ucciso il Procuratore della Repubblica Bruno Caccia. Ale abitava lì vicino, corse a piedi. E a tutti insegnò che il grande cronista è tale soltanto se è persona di grandi sentimenti: a due passi dal corpo del magistrato pianse e le prime notizie le diede con la voce che si sgretolava.

Marco Neirotti