BRUNO BERNARDI ESPLORATORE DEL CALCIO

In morte di Bruno Bernardi, anni 79 con mezzo secolo abbondante di giornalismo sportivo vissuto insieme, mi permetto la brutta e antigiornalistica, ma stavolta forse opportuna (una dolente responsabilizzazione, ecco) prima persona singolare, anche per esporre usando lui alcuni pensieri pensierini pensieracci miei sulla tipologia di quel lavoro, persino su quello stesso giornalismo spostato ai tempi attuali, tempi di virus permanente che si chiama crisi.  

 Uso Bernardi. Lo ha fatto anche Vittorio Pozzo quando era un vecchio giornalista, ex glorioso citì azzurro, stampellato dal giovane rampante il giusto. Lo ha fatto il grande Giovanni Arpino approdato al giornalismo sportivo e pronto ad eleggerlo suo informatore, confidente, trasmettitore perfetto e competente – sino al ruolo eventuale di correttore superesperto – di articoli ai dimafonisti de La Stampa, consulente sommo per affari calcistici, compagno ideale per trasferte anche mondiali. Lo ha fatto dandogli, in “Azzurro tenebra” gran libro sulla Nazionale di calcio, quel soprannome – Bibì – niente pensato in chiave bardottiana e subito appiccicato bene al portatore. BIbì (o Bi-Bì), fisico e postura casomai alla Humphrey Bogart per l’incedere quatto e intanto sicuro da indagatore in perenne agguato della preda-notizia (alla fine dei suoi giorni Bibì era però diventato una sorta di Bud Spencer per via della chiusura progressiva delle palpebre, che lasciavano filtrare poco ma proprio poco dalle pupille).

 Grande Bruno ultimo cronista sportivo puro e semplice un po’ per meriti suoi, e infatti tarderà molto a nascere, se nasce, uno come lui (da Garcia Lorca, uno spagnolo che non ha mai giocato nel Real Madrid), nel senso di uno così bravo e attento e conscio di certi limiti dunque esploratore umile e diligente per cercare sempre nuovi spazi. Un po’ per demerito dei tempi, che ormai hanno ucciso sulla carta stampata il giornalismo nostro dell’andare-vedere-raccontare. Bibì era cronista dal vivo, era epigono dell’”io c’ero” trombonesco ma vero dei giornalisti cantori, che hanno plasmato e poi orpellato con gli scritti, dal quasi nulla e pazienza se senza l’attrezzo del congiuntivo, il grande e grosso e talora anche grasso di popolarità giornalismo sportivo italiano. Un “io c’ero” minimalista nella routine del lavoro quotidiano, un po’ di Toro e tanta ma tanta Juve beneamata, con respiro ampio e soffio forte per grandi manifestazioni. La televisione ha ucciso il viaggiare e il raccontare, amen, piangere è inutile e persin vile. Bruno Bernardi adesso sarebbe cronista perfetto del poco che la televisione non vede, non vuole far vedere, e noi saremmo comunque felici di leggere quel poco.

 Bruno amava il calcio, da lui giocato anche bene. Al punto che poteva vantarsi di avere mostrato cose belle, mettendosi in braghette dove andava a “fare il campo”, cioè a prendere notizie degli allenamenti, a tanti assi, da Boniperti a Platini passando per Sivori e Bettega e Tardelli (da juventino esagerato infierì su un figlio, dandogli il nome composito di Alainmichel, da Boczik e Platini bianconeri). Dribblava bene e se non aveva più forze eseguiva dei lanci buoni a far correre gli altri. Trasmetteva così forte l’amore per il pallone, quasi trasfigurandosi, che Maradona arrivò in Italia, stava al Napoli ma lo conobbe a fondo, fu contagiato, lo elesse ad amico fra i massimi e lo invitò, Bibì e nessun altro della stampa italiana, al suo matrimonio a Buenos Aires (poi tutto dissoltosi, il matrimonio e magari anche Buenos Aires). 

 Un esempio per me davvero speciale per dire di questo amore, che lo portava anche a spartire il tempo battendosi contro Orfeo Pianelli, presidente di un scudetto granata (1976 ), in tremende partite a carte, perché Bibì era giocatore folle da tavolo verde (tutti, roulette compresa) in senso assolutamente non ecologico. Dunque ci accadeva sovente di lavorare insieme, all’estero e non solo, per partite di squadre italiane di club in qualche coppa importante, di dovere, nella sera che si faceva presto notte, speculare sui minuti, sui secondi, scrivendo in diretta durante la partita, e benedicendo la squadra, anche se nemica, che perentoriamente sembrava ormai aggiudicarsi il risultato, permettendoci così di finire il pezzo presto e bene, anche prima del fischio di chiusura, e trasmetterlo al volo senza l’ambascia dl un capovolgimento di situazione in extremis. Era un male del mestiere, si tradivano anche i colori di una vita da stadio, si arrivava alla bestemmia di non amare la squadra del cuore se ti faceva lo scherzaccio di risorgere e rendere obsoleto il de profundis che avevi già composto.

 Tutti così, noi forzati del lavoro notturno, tutti fuorché Bruno, che per amore del calcio, e del calcio italiano, se una nostra squadra riusciva all’ultimo a salvarsi dalla eliminazione buttava via il foglio già quasi tutto scritto, cancellava sul computer l’articolo ormai sul punto di essere trasmesso, e si rimetteva al lavoro, talora persino improvvisando il testo in diretta telefonica per sfruttare ogni secondo.

Non c’è più la materia prima giovane e forte e curiosa e pazienza se un poco sparagnina (Bruno era un mago delle trasferte comunque fruttifere nella nota-spese) per plasmare un cronista così. Ci sono il gossip, il pissi-pissi bao-bao, la confidenza carpita, quella che la televisione non sa (ancora) mostrare. E’ giornalismo, ma “altro”, e da tempo non riguardava più Bibì che in sofferta pensione cercava casomai il posto buono al dibattito televisivo anche localissimo (lui che aveva frequentato i fasti dei Biscardi, dei Ciotti), quello delle televisioni private, per dire non tanto la sua, ché non aveva vendette da rifinire, ma per ancora raccontare, specialmente raccontandosi.

 Qui magari leggendomi lui mi riprenderebbe per eccesso di affettuose rimembranze, mi direbbe che noi tifosi granata non abbiamo il senso della giusta misura emotiva, nel bene come nel male, mi manderebbe al diavolo in piemontese, la sua lingua facile delle sincerità. Parlava in dialetto talora anche con lo straromanissimo anzi straromaneschissimo Sandro Ciotti quando in pochi si riusciva a fare l’alba atterrando a Torino dopo le partite di coppa in Europa alle 2, alle 3, pienissima notte, e andando a mangiare da Urbani, il ristorante aperto per noi, e loro due trovavano sempre altri due per lo scopone, riempiendosi di sigarette e obbligando al fumo anche chi non fumava di suo.

 Le sigarette. Perfide e criminali, ma mi hanno indirettamente regalato un Bibì ad alto tasso umoristico. Siamo nel 1994, a Los Angeles, lui non è con noi nello stadio a scrivere della finalissima fra Brasile e Italia (3 a 2, forse se c’era lui Baresi e Baggio mica sbagliavano quei calci di rigore decisivi, Bibì poteva fare di questi miracoli). Lui nell’ospedale del sobborgo californiano di Pasadena usciva dall’anestesia con le sue scie, quella domenica 17 luglio, dopo una lunghissima drammatica operazione al cuore: un infartaccio l’antivigilia del match, dieci ore di taglia e cuci, unico viatico a lui comprensibile quello del cappellano messicano dell’ospedale, in spagnolo: “Vaya con Dios”. Al lunedì diedero a noi suoi colleghi di La Stampa (casa sua per trenta e passa anni) il permesso di fargli visita. Nel letto lui monitorato da strani apparecchi su schermi pieni di righe mobili e fluorescenti, lui incoronato da sensori, lui trafitto da fleboclisi, lui intubato, lui che mi vedeva e subito in piemontese mi diceva, Ospedale come uno splendido hotel a cinque stelle, lui in camera singola, immenso: “Certo che per farmi smettere di fumare potevano inventarsi di meglio”. 

Giampaolo Ormezzano